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Storia
Accade spesso che, svegliandoci in un giorno qualunque, non appena riapriamo gli occhi ci accorgiamo d’un tratto di aver accumulato tempo e spazio dietro a noi, situazioni, volti, luoghi, idee con cui è ora di fare i conti. Ma, detto semplicemente, ogni qual volta ci si trova a dover parlare del passato le voci non collimano le une con le altre, i giudizi si sovrappongono, la memoria non soccorre e la nostra onestà è troppo avara per riferire quanto abbiamo vissuto nella maniera più esatta. La tentazione è sempre quella di farla franca.
Sartre, in La nausea, scriveva che «quando si racconta la vita, tutto cambia... gli avvenimenti si verificano in un senso e noi li raccontiamo in senso inverso... Affinché l’avvenimento più comune divenga un’avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo».
Non diversamente il neozelandese Frank Sargeson, in Uomini, scrive: «Non importa che sorta di notte avete avuto, le cose al mattino sono sempre diverse», e prima di lui, il fondatore della letteratura australiana Henry Lawson in I gerani della signora Spicer: «Al mattino tutto sembra avere un altro aspetto».
E allora, cos’è questo passato, e in che modo parlarne? Si finisce sempre per mitizzarlo, ponendosi narcisisticamente a vittime o pontificando quali saggi che hanno conosciuto il mondo. Il problema, forse, è quello della verità, ma ancora una volta, individuato l’obiettivo, l’orizzonte si sposta.
Cos’è, infatti, la verità? Un’interpolazione, la risultanza tra due atteggiamenti? È la realtà così come è stata a dispetto di come avremmo voluto che fosse? E se, terza ipotesi, fosse proprio il contrario, ciò in cui abbiamo creduto, investendo noi stessi in un progetto che si è realizzato o che ci è sfuggito di mano?
Noi siamo per quest’ultima ipotesi.
Ciascuno, infatti, ha una propria rappresentazione del reale e, conseguentemente, del vissuto. Non esiste la certezza oggettiva, granitica, qualcosa di scolpito, netto e irrefutabile, il prodotto finito da consegnare, ma sempre e solo una contaminazione con i nostri ideali e l’aspettativa che abbiamo avuto sul nostro agire nel mondo.
L’uomo non fabbrica, crea. E questo pensare le cose, che lo contraddistingue dal resto del creato, fa sì che esse siano sempre in fieri, perfettibili, mai chiuse. Quel che esce dalle nostre mani, dunque, non è l’oggetto compiuto, staccato da noi, ormai dotato di vita propria, poiché inevitabilmente si porta dietro le scelte fatte a monte, il nostro io, il nostro intimo; i sogni, le fedi, i disincanti.
Se, pertanto, dovessimo andare à rebours, ripercorrendo questi anni di attività che ci hanno preceduto, non potremmo che trovarvi la sola coerenza delle scelte, tutte tenute insieme da un modello di analisi letteraria che si inscrive in uno di matrice ideale.
Le opere pubblicate, uniche vere impronte di un cammino editoriale qualunque esso sia, testimoniano esattamente tutto questo; non qualcosa di sganciato dalla vita di chi con esse si è confrontato decidendo alfine di pubblicarle, bensì il prolungamento nel reale, nel sociale, di un modo di vivere.
Dunque, a Milano, nel 1983 nasceva la casa editrice Giovanni Tranchida Editore.
Una stagione di fervori e di lotte per gli ideali si era ormai abbondantemente chiusa, nel bene come nel male, ma non erano placate ancora le seti di Bello, di Vero, di Giusto. Come, allora, non lasciar cadere quella tensione morale che attraversò il nostro Paese destandolo dal torpore e dal sonno dogmatico? E soprattutto, come dar sfogo a un bisogno che la lotta sociale e politica non potevano più contenere o anche solo rappresentare, essendo esso il bisogno più autentico e irrinunciabile dell’uomo, quello di infinito, la risposta di senso all’esistenza e alle domande insopprimibili che premono dentro di noi?
La Giovanni Tranchida Editore e le opere da essa pubblicate furono proprio la declinazione di questa esigenza di pienezza e di scavo in profondità. E allora, ecco uscire dall’ombra classici che per motivi diversi erano stati censurati o, più prosaicamente, non conosciuti dalla critica. Ecco, parallelamente, la ricerca, nel presente, di quelle voci che esprimono il meglio della letteratura contemporanea.
Su questi due binari, lentamente negli anni, ma con ostinata determinazione, si è mossa la nostra ricerca, esplorando il panorama letterario a tutte le latitudini per ritrovarvi - sempre - opere che, visti il contenuto e il gusto stilistico, rendono prezioso questo catalogo.
Uno dei compiti che ci proponiamo è quello di far conoscere e divulgare le opere di autori apparentemente lontani dal modo e dal pensiero effimero così dominante nella nostra cultura, che portino l’eco più autentica di civiltà a noi, per nostra esclusiva ignoranza, sconosciute; di un modo ricco di fare letteratura.
William McIlvanney è uno scrittore scozzese, fra i giganti della letteratura moderna è, tra questi, la punta di diamante. Le sue opere prendono spunto frequentemente da avvincenti intrecci di carattere giallo-poliziesco, per muovere una riflessione che si allarga dalla trama alla realtà, dal personaggio all’uomo; il protagonista di queste storie è spesso l’ispettore della omicidi di Glasgow Jack Laidlaw, antieroe per antonomasia, più che investigatore di crimini osservatore dell’animo umano e dei recessi oscuri che come buchi neri fagocitano la società con le sue certezze. Laidlaw è filosofo del dubbio, pronto a mettere in discussione tutto pur di far emergere la verità, scomoda, a volte orrenda.
Il secondo muro portante della nostra linea editoriale è Yashar Kemal.
Indiscusso sciamano della letteratura turca, grande maestro di tutto il Novecento, Yashar Kemal è cantore delle terre del Tauro, in bilico tra mito, superstizione, realtà e tradizione. La coralità, caratteristica fondante dei suoi romanzi, è al tempo stesso impianto stilistico-strutturale e tratto di una popolazione che vive sentendo come un corpo unico. I colori accesi, la natura ostile, le genti seminomadi della mitica Çukurova sono un canto di lotta per la vita che si fa Apocalisse e Poesia, versandosi nella terra rossa, nell’impasto della polvere al palato, scorrendo tra le pieghe millenarie dei volti dei saggi.
La Trilogia della montagna, che comprende Al di là della montagna, Terra di ferro, cielo di rame e L’erba che non muore mai, raccoglie queste voci e ne fa un indimenticabile affresco che resta nell’animo con un sapore di antico e di nuovo, lontano dal nostro mondo eppure paradossalmente presente, vivo, come può esserlo un archetipo, la radice stessa dell’io dell’umanità.
Parlando di Yashar Kemal, amiamo citare un altro autore di frontiera, la cui scrittura è anche un proseguimento della lotta che insanguina spesso il suo paese. Yusuf Yeshilöz, nato in un villaggio kurdo e presto costretto a fuggire in Svizzera a causa del proprio impegno per il suo popolo nell’ambito della spesso inumana giurisdizione turca; i suoi romanzi (Verso il tramonto e Erba selvatica), tuttavia, del tutto scevri di violenza, emanano un’atmosfera di incanto quasi magico.
Un altro grande autore capace di restituire interamente l’afflato di un popolo e della sua terra ma non solo di questa è George Mackay Brown. I romanzi di Mackay Brown si collocano sempre contemporaneamente fuori e dentro la storia, nell’alto Medioevo e immediatamente all’epoca del nazismo (La croce e la svastica), in un tempo e in uno spazio che sono quelli della finzione e della realtà, con un montaggio narrativo geniale e una vocazione affabulativa omerica. Il ritmo caldo, i toni color pastello, i viaggi per terra e per mare alla conquista di un regno, compongono così il quadro di un’epopea che può essere letta sia come fantastico perdersi che come lezione di narrativa, quella vera.
Altri nomi costringono lo sguardo a un’apertura sul reale ampia, a una attenzione verticale, penetrante le cose, in grado di dividere, discernere, vagliare e ricomporre la totalità; la narrativa, insomma, come binocolo e microscopio, lama e collante, analisi e sintesi: capacità di giudizio.
Pensiamo a Henry Lawson, Ibrahim Souss, Tashi Dawa, tre autori dall’indole e dall’esito formale affatto dissimili ma tutti ugualmente in grado di consegnarci una prospettiva di contenuto assolutamente originale.
Con Henry Lawson prendiamo contatto con i paesaggi australiani per arrivarne subito al cuore, il bush, luogo che assume una valenza tutta metaforica, specchio della natura e di un mondo contrapposto al decadimento che la modernità porta; emblema, altresì, della lotta umana per la sopravvivenza, fisica ma soprattutto psicologico-morale.
Quando questa lotta si fa letteratura, ecco allora la storia controversa che unisce e contrappone i popoli. È Ibrahim Souss a parlarcene, ora con malinconia ora con rabbiosa determinazione, attraverso i suoi romanzi ambientati negli anni che vedono il costituirsi dello stato d’Israele e la diaspora palestinese (Lontano da Geruralemme, Lettera a un amico ebreo, Le rondini di Gerusalemme). Quello che rende grande questo scrittore è l’assoluta mancanza di aggressività, di partigianeria facile; la forza delle pagine sta tutta nell’equilibrio che le sorregge. Dal semplice racconto dei fatti, dalla narrazione di amori impossibili, si leva un sentimento garbato ma tenace, in grado di prenderci per la gola e muoverci a riflettere su cosa vuol dire giustizia.
Dal Tibet giunge l’eco di Tashi Dawa con Ritorno in Tibet e Trilogia dell’illusione a rilevare il contrasto tra una cultura millenaria, il Buddhismo, che è la radice stessa del popolo che abita quelle terre, e l’avanzamento della cosiddetta civiltà, con l’appiattimento materialista e la disgregazione conseguenti. Le atmosfere sono magiche, surreali, e la realtà, in una costruzione spazio-tempo circolare, alimenta e si alimenta dal sogno, da presagi oscuri e sanguinolenti. I referenti letterari sono presto individuabili; pensiamo a Márquez, Borges, Neruda e altri. Egli si colloca tra i massimi esponenti della letteratura cinese del nostro tempo, tra una tradizione antichissima che permea l’anima stessa del Tibet e la minaccia sempre più incalzante della modernità.
La lista dei grandi nomi è solo all’inizio. Il percorso di lettura che noi proponiamo, infatti, è anche viaggio intorno al globo.
Dal Tibet al Giappone di Lafcadio Hearn. Nelle storie da questi narrate è sempre sottile il confine che separa la realtà dal mistero, nell’ambito di un paese rivisitato e rivissuto nelle sue radici spettrali. Lo stile è fortemente suggestivo come del resto il materiale da esso manipolato, ricco di richiami e invenzioni.
Una voce schietta da un luogo lontanissimo racconta con tenace passione le leggende e le storie quotidiane del suo mondo. È la voce di Jurij Rytcheu dalla incontaminata Siberia. Il popolo çuçko, gli abitanti del margine estremo, si affaccia così alla nostra conoscenza del globo terracqueo e della letteratura autoctona.
Il gallese Arthur Machen, considerato un maestro da Borges, sonda i misteri dell’universo senza mai dare risposte ma sconvolgendo, ribaltando i piani, lasciando un’apertura alla possibilità che non offre riposo dall’inquietudine.
L’Irlanda vanta una rosa di nomi sui quali vale la pena appuntare la nostra riflessione. Quello che ci preme qui sottolineare è che questi scrittori raccontano di una terra inesplorata, del tutto ai margini della retorica dei miti narrati nelle guide turistiche.
Maurice Walsh fonde insieme due facce, la lotta per l’indipendenza e la ruvidezza autentica degli irlandesi, il loro senso di fratellanza, la trasparenza sincera. Tutto veicolato da una scrittura sagace, sicura, diretta cioè franca come gli stessi personaggi che Walsh ben caratterizza.
E poi l’ironico e grottesco in Seumas O’Kelly, il naturalismo, l’essenziale e l’ambiguo in George Moore, il sublime nei romanzi di Liam O’Flaherty e nei racconti di Frank O’Connor.
Il mondo femminile non è certo stato dimenticato, anzi.
Shahrnush Parsipur, scrittrice iraniana le cui opere sono state messe al bando. La protagonista di Tuba e il senso della notte, ha compreso come l’identità del proprio Paese stia tutta nell’affrancamento delle donne dall’ignoranza e dall’isolamento.
Joan Barfoot, straordinaria scrittrice canadese, analizza con precisione quasi chirurgica la condizione socio-psicologica delle donne, spesso relegate a ruoli riduttivi e soffocanti, spingendo alcune delle sue protagoniste a una scelta risoluta che recida il legame con il passato. Ha ampiamente meritato il Marian Engel Award.
Susan Samanci, delicata scrittrice kurda, poetica e malinconica. Le sue sono storie di donne impaurite e rassegnate che scivolano furtivamente tra i vicoli asfittici. O di amori, come quello che Helin (i cui capelli profumano di resina) prova per un giovane costretto a vivere lontano. E sullo sfondo, la persecuzione del suo popolo, l’incendio delle case e dei villaggi.
Entriamo nel cuore dell’Impero. Detroit: la commovente storia di un bambino il cui sentimento d’amore, già maturo per la sua età, non è compreso dalla superficialità degli adulti che decidono così di portarlo in una clinica. Burt, il bambino, puntandosi il dito contro, si uccide. È Howard Buten a narrarcela in Quando avevo cinque anni, mi sono ucciso; il suo merito è quello di aver tradotto nei libri il mondo dei silenzi delle cliniche, le urla soffocate dei bisogni più elementari che anche i bambini hanno.
Restiamo ancora nell’Impero e facciamo la conoscenza del geniale Robert Kelly, che dà prova di grandezza non comune. Il suo punto di forza maggiore sta nello stile, avvicinabile ai migliori esiti di Borges (non a caso egli insegna scrittura creativa alla Milton Avery del Bard College).
È proprio mediante il virtuosismo della forma, mai fine a se stesso, che Kelly scende nelle segrete dell’animo umano esplorandone l’infinita complessità, cui corrisponde l’irriducibilità delle cose reali, la loro collocazione quasi assurda, o comunque incomprensibile, nel tempo e nello spazio. La scrittura come gioco; le parole sono tessere intercambiabili di un mosaico sempre mutevole. Un gioco serio cui la psiche e i panorami prendono parte in un continuo moto di scomposizione e moltiplicazione.
Nella letteratura latino-americana, spicca la figura del colombiano Rogelio Iriarte, scrittore di genere noir abile nel costruire l’impianto del romanzo disseminando indizi sempre impeccabilmente convergenti, chiamando e coinvolgendo anche il lettore all’investigazione dei fatti. La sua è innanzi tutto una filosofia del noir, convinto che «uccidere è quasi un istinto naturale del genere umano».
Sulla costa basca, Joseba Sarrionandia, scrittore perennemente in fuga, coglie sottili sfumature con occhio spietato e lucido a volte, tenero e malinconico in altri momenti, per offrire complessivamente una narrativa che sia interrogativo e dubbio. Un altro scrittore basco di grande levatura è Edorta Jimenez; il suo approccio al romanzo è differente da quello di Sarrionandia. Con La voce delle balene siamo di fronte a un’avventura che, malgrado l’ambientazione storica e l’inserimento di motivi trasversali, ha più il sapore del giallo che della speculazione esistenziale. Parallela a questo percorso investigativo, tuttavia, è possibile ritrovare la dinamica del cammino della conoscenza, fortemente in contrapposizione all’ignoranza e alla meschinità umane.
Il più importante esponente della letteratura delle Canarie è Rafael Arozarena. In Mararía, autentico capolavoro della letteratura di lingua ispanica, egli traccia i contorni di una terra (molto simile alla Sicilia di Pirandello) con poesia e crudeltà. Mararía, angelo o demonio, donna bellissima per la quale tutti gli uomini di Femés hanno perso la testa, raggruma in sé la magia e la realtà, la superstizione e il vero di una terra ancora arcaica.
Gail Jones, australiana, è un esempio di scrittura di straordinaria efficacia. Il tocco geniale, poetico, essenziale; le tematiche ossessive del rapporto con i genitori, l’emarginazione della donna, l’impossibilità della comunicazione; un’Australia diversa, insomma, raccontata nella sua modernità, nella contiguità con altre terre, dove attecchisce il seme dell’alienazione e il soffocamento della parola investe l’individuo.
Il viaggio nello Sri Lanka è più un excursus nel tempo che un’esplorazione in termini paesaggistici e folkloristici.
Rajiva Wijesinha affronta il tema del cambiamento della società singalese concentrando la propria analisi su uno spaccato sociale di questa, i servi.
Tre generazioni, nonni-genitori-figli, si susseguono e si confrontano mettendo in discussione il loro rapporto con i servitori di quella grande casa colonica di Shalimar nella quale vivono da decenni. Il modo di trattare i servi, profondamente cambiato negli anni, non è che lo specchio di un rimodellamento più generale che ha investito l’antica isola di Ceylon. L’estensione della lingua inglese, prima appannaggio delle famiglie abbienti, ai ceti più umili della società e, contemporaneamente, l’acquisizione da parte di questi ultimi di una coscienza politica, sono le due spinte fondamentali al cambiamento. E a Shalimar, di riflesso, si rimescolano le posizioni, i rapporti, le idee; nel cerchio chiuso delle vecchie generazioni si apre una breccia non più sanabile.
Per quanto riguarda i classici, un breve cenno va a racconti o romanzi brevi (peraltro mai tradotti in Italia), che suggeriscono spunti per un approfondimento successivo. Autori quali Zola, Rousseau, Flaubert, Goethe, Proust, Joris-Karl Huysmans, James, Arthur Conan Doyle, Novalis, Karamzin, Brjusov, Milton, William Morris, Odoevskij, Turgenev, Anatole France, Oskar Panizza, Ebner-Eschenbach, Braddon... trovano agio in una collana sempre in evoluzione. Quello che la contraddistingue è il livello della traduzione, fedele allo stile della prosa originale e al pensiero che lo sottende. Spicca tra tutti il nome di John Milton, il cui Paradiso perduto è proposto nell’unica edizione integrale, quella del grande Andrea Maffei, priva delle censure ottocentesche e delle manipolazioni dei contemporanei.
Emile Zola, padre del naturalismo francese, rivela qui un tono più complesso, meno ricollegabile a quella corrente, e più vicino ai modi dell’incubo e dell’ossessività delirante.
Valerij Brjusov, simbolista russo, ha il merito di aver precorso quelli che furono gli esiti freudiani. In Brjusov è proprio il fondo oscuro dell’uomo che viene scandagliato con le sue deformazioni allucinatorie e i processi mentali più sinistri.
Di Henry James troviamo, intatta, una fine lezione di analisi psicologico-esistenziale, ripartita nella narrazione con stile sempre elegante eppure arguto, pronto a cogliere le infinite sfumature dello spettro cromatico del reale. Il suo è uno sguardo panoramico e al tempo stesso certosino, una tensione che si fa movimento conoscitivo e rielaborativo, un modo di accostarsi alle cose, quindi, che attrae per la capacità di osservazione e di giudizio.
Oskar Panizza, psichiatra e scrittore tedesco, internato negli ultimi anni della sua vita, si occupò prevalentemente delle angosce represse e delle sue manifestazioni come sdoppiamento di identità; ma, soprattutto, egli seppe individuare il germe di una realtà che sarebbe affiorata un secolo più tardi: la creazione di esseri umani in vitro.
Nikolaj Karamzin, uno dei padri fondatori della letteratura russa, con il celeberrimo La povera Lisa schiude le porte della modernità letteraria in Russia preparando il terreno per un gusto squisitamente pre-romantico.
Ancora due donne attirano la nostra attenzione. Marie von Ebner-Eschenbach, considerata da Claudio Magris «la più grande narratrice di lingua tedesca», depositaria dell’incontro slavo-tedesco che nei suoi scritti costituisce il tratto più peculiare. Nel 1900 fu la prima donna a essere insignita di una laurea honoris causa presso l’università di Vienna.
Mary Elisabeth Braddon, una delle scrittrici più popolari dell’Ottocento inglese, fine tessitrice di storie sinistre e fantastiche. La Braddon ci riporta nelle cavernose tinte della realtà e della mente, dandoci insieme alla piacevole lettura di svago qualcosa di più, una riflessione, un pensiero, un interrogativo che prosegue oltre il finale.
Avvicinarsi a Marcel Proust, all’imponente mole della sua Recherche, è cosa possibile anche per i lettori più timidi. Con le raccolte Personaggi e Paesaggi prendiamo contatto con due facce di quel mondo e di quel tempo perduti che l’autore racconta con magistero di stile in un’opera di cui assaporiamo i tratti in questi due brevi testi.
Ed ecco gli italiani.
Da troppo tempo, ormai, il nostro Paese non offre nomi in grado di competere con i grandi dell’Europa e, soprattutto, del resto del mondo. Volendo trovare scrittori capaci di incidere la realtà con la loro penna, lasciando al lettore l’impressione che è valsa la pena di aver impiegato il proprio prezioso tempo per confrontarsi con quel testo, il panorama è ben povero. Sempre più vale la logica della riflessione a buon mercato, dello stile che scimmiotta i modelli acquisiti, ed è difficile, specialmente in Italia, rintracciare la letteratura di peso, quella che non dura lo spazio di una stagione e del gusto di massa, quella che sa farsi, prima ancora che critica, autocritica. In questa direzione, la nostra redazione in tutti questi anni è stata una sorta di bottega in cui passano apprendisti e artigiani per affinare le loro tecniche, i loro strumenti, imparando il gesto, il tocco, lo stile. Anche per noi non è stato facile trovare quei talenti che non si rivelassero, alla fine, dei fuochi fatui. I pochi che qui si sono forgiati, meritano il titolo, semplice e senza enfasi, di scrittori. Essi sono Luciano Patetta, Roberto Betz e Fulvio Fiori.
La saggistica comprende campi quali la psicologia, la filosofia, l’architettura, la critica letteraria, la storia contemporanea; è bene sottolineare che spesso si possono trovare testi che per il loro contenuto hanno una polivalenza che li colloca in una posizione di transito tra le diverse discipline.
La psicoanalisi-psicologia prende le mosse soprattutto dal filone junghiano, per poi svilupparsi liberamente evolvendo in studi sulle relazioni tra individui, o applicati a simboli storico-religiosi divenuti quasi archetipo di significati postumi. A questo proposito, ci riferiamo a Psicologia del Graal di Emma Jung e Marie-Louise von Franz, uno straordinario saggio in cui la celebre leggenda del calice che avrebbe raccolto il sangue di Cristo viene riletta e reinterpretata, adducendo analisi sui contenuti psichici retrostanti e sulla più generale tendenza connaturata all’uomo, di ricerca della Verità suprema.
La critica socio-letteraria conosce soddisfacenti risultati con L’invenzione del best seller di Alessandra Contenti, impietoso smascheramento dei meccanismi editoriali concepiti dalle holding che muovono la scena libraria, soprattutto quella dei cosiddetti best seller o sedicenti tali; ciascuno di questi libri, fa notare la studiosa, reitera modelli preconfezionati, facili cliché che, monitorati dall’industria editoriale, incontreranno sicuri successi. Da non dimenticare, per la critica letteraria, Gigliola Nocera e Valerio Bruni, l’uno impegnato nell’intreccio tra letteratura, pittura e arte, l’altra alle prese con il cambiamento del linguaggio e del rapporto con la natura avvenuto dopo il tramonto del mito del selvaggio.
Un testo fondamentale è Storia della paternità di Jacques Dupuis. Dopo accurati studi sull’antichità e ricerche etnologiche, egli rintraccia la nascita del concetto di paternità a partire dal V millennio, periodo dopo il quale non è più la donna il pilastro fondamentale della famiglia ma l’uomo, forte della scoperta del suo ruolo sociale. Da questo momento deriva, con il concetto di famiglia, la chiusura del tabù e quindi il soffocamento di naturali e sempre esistiti comportamenti e tendenze, ora non più praticabili: l’incesto, l’omosessualità, la prostituzione.
Filosofia, architettura e a volte anche psicoanalisi sono elementi congiunti nei testi di Carlo Sini e in particolare Pensare il progetto, una lezione di indubitabile cesello intellettuale. Inoltre segnaliamo le Lezioni su Cartesio di Alexandre Koyré, nelle quali il pensiero del grande storico della scienza viene riproposto partendo dall’assunto che tutto il panorama scientifico europeo moderno deriva, direttamente o indirettamente, dall’autore del Discorso sul metodo.
Sul tema più specificamente architettonico-urbanistico, ragiona Giancarlo Consonni con Addomesticare la città, mentre due studi importanti sono quelli di Corrado Levi (Trattatino di architettura) e di Alessandro Mendini (La poltrona di Proust).
Il primo, provocatorio e diretto, dirige la mano di chi progetta nella sempre più diffusa incertezza che investe l’epoca contemporanea, divisa tra regole architettoniche e sfuggenti realtà che sembrano rifiutare ogni modello acquisito. Il secondo, anch’esso a tratti caustico, fa partire la sua ricerca dagli anni Sessanta, rintracciando le crepe di uno scenario spesso pervaso da un’incapacità di autorinnovamento. Arte, design e architettura sono i punti focali di questa messa a nudo.
Alcuni argomenti di storia contemporanea sono spesso oggetto di dibattito, ma raramente accade che la notizia sia rapportata a una conoscenza solida del terreno retrostante. E allora, ecco il luogo comune. Con Storia politica di E.T.A. e dei Paesi Baschi di Giovanni Lagonegro si è attraversato un campo minato per arrivare dritto all’obiettività della ragione. I risvolti politici e bellicosi del movimento di liberazione sono inquadrati nella più generale prospettiva della storia di un popolo, la cui cultura antichissima si fonda sulla coscienza forte della propria identità.
La risultante delle linee editoriali fin qui individuate è un numero cospicuo di titoli. Ma l’intrattenimento è durato molto e potrebbe ancora spingersi oltre, poiché i fatti della vita non si possono riassumere mai in brevi cenni, in elenchi, in generi; c’è sempre dentro qualcosa in più che è rimasto non detto, o un’ombra che si è per un solo istante affacciata.
Detto questo, noi speriamo che il Lettore sia invogliato a proseguire personalmente questo discorso, confrontandosi con le opere del catalogo, ritrovando in esse qualcosa di se stesso e, perché no, un pezzetto di quell’entusiasmo che ci ha animati in questi anni. A tutti buona lettura.

L’Editore
History
Who we really are
a conversation
with Cinzia Sasso

Can you say ‘unpissed off’? Or is he simply just tired? Perhaps somewhere in-between.

Giovanni Tranchida leaves his computer, but for a while still carries with him in his head his accounts; then it’ll be tax return time; and then...

‘You waste so much time on these things, instead of doing something more interesting.’

‘What did you do before?’

‘I was a publisher, same as I’ve always been, in the 1970s I dealt with underground ‘counter-culture’ journals, then for a couple of years I was assistant editor in one of the larger publishing houses, an experience I’d sooner forget.’
Somewhere around the mid 1970s he established a service for the publishing houses which were then considered ‘militant’; every publishing house had a different theme and dealt with a specific sector: Filorosso publishing dealt with essayists, La Scimmia Verde publishing with politics, feminism and didactics. These were all strong themes at that time.

‘And I oversaw all of this. At that time I was involved in editing proper, everything was going better than ever, when its principal player, myself, the organiser of everything, became a political prisoner. I was hors de combat for four years, held in a maximum security prison as it was called, accused of being part of a legendary organisation known only as ‘O’, the organisation that took its place in history as the famous ‘April, 7 case.’ He swivels around in his chair, tired, perhaps of repeating the same words yet again, so much so that it seems he’s talking of events of centuries ago. There were then more than four thousand political detainees, it was a difficult time, up to the prisoners’ revolt in the Trani maximum security prison. It was all brought under control thanks to a massive operation by the Carabinieri special branch, the GIS (the Italian “leather heads”). There were beatings and transfers, helicopters controlling events from above and an unknown number of men on the ground. The regime got tougher, with conversations with relatives taking place through glass so thick it was almost impossible to make out words. There were checks, confiscations, repression was hard. It was another world. Another time; his words are tired.

‘Of that time I have the souvenir of a broken rib and other injuries, besides the acquittal I got after four years of high security imprisonment plus a year and a half of house arrest and two trials lasting another four years. I was considered to be a ‘boss’, the brain behind the organization. Naturally they didn’t have a shred of evidence but precisely for that reason I was considered guilty; there would be no traces of a true boss was the prosecution’s theory. The truth was I was editor of a news-magazine called Rosso, and of a hundred other journals and pamphlets. Every now and again I’d go to the Calusca bookshop and find yet another new one, with my name on it, my responsibility.

That’s what happened at that time, indeed there were many journalists who lent their names to the cause of liberty: Pio Baldelli, Marco Pannella, Marcello Baraghini and others. Then it all went to hell. ‘Thirty years’ imprisonment? It could have happened, given all that was published in his journals at that time, yet Giovanni Tranchida wasn’t tried for his editorial activity nor for heading up some journals, but for his membership of the mysterious ‘O’. In 1983 the Tranchida Publishing House was born, brought about by a group of friends (of whom he warmly remembers Ermanno De Palma and Armando Franco, who died a few years later) who proposed to Giovanni that he should head up a new publishing firm, this time for real, one that should carry as its title the name of its editor as someone still recognized in the role of leader. Giovanni Tranchida was tired of publicity, of appearing in the newspapers, and tried to dissuade them. He wanted to hide himself away for a while, to stop being public property. Giving his name to a publishing house seemed to put him back in the open, to expose him.

‘My situation was a contradiction, because I’d always believed that true publishing houses were those which identified themselves with their editors, a figure who had to provide the thought behind a body of work, a decisive element, someone who brought together intellectual resources yet who gave the organization its character, direction and style. If there is no such role, a publishing house doesn’t really exist, other than as an industrial structure which goes on whatever happens, as is the case with all those depersonalized, large editorial firms. Imagination means little to those firms, for sooner or later it will fail with them.’

On the other hand, a total identification with one person carries with it the risk of being of itself problematic for the publishing house; the risk is that of being identified with a past which is not yet remote. The papers were ready to talk about ‘recycled’ terrorists, ready even to accuse the same people of passing themselves off as ‘refined’ publishers. Did the decision to give his own name to his publishing house have the effect of seriously limiting its success?

‘Milan was a desert then, the defeat of the movement had thrown away all it had created, people were afraid of speaking, of talking about culture again. The firm Tranchida was founded on this premise: fine, we said, we must have our revolution some other way, with a longer timescale, starting from the assumption that individual conscience must itself change, forming itself from infancy. Culture must become a founding element of our new society, for if this point is not clear you can have all the revolutions you want and you’ll get nowhere. The risk, the danger we were up against if we were successful wasn’t that of carrying forward ‘new barbarities’ ourselves but that we weren’t prepared and there were even those who said that we should be made an end of.’

Giovanni Tranchida no longer seems ‘pissed off’ or simply bored, for now his memories aren’t any longer tired words but fiery ones, recalling the great richness of the movement and all the mistakes made by the militants. Those interminable discussions, those smoky meetings. The dream and the reality. Bologna and the 1977 Convention. Bologna under siege: the streets, the bars, the squares, the raised fist, transformed into the sign of the P38, the joints, the urban Indians, the slogans.

‘A long, long time before I ended up in prison I realised the risk the movement was taking. During the famous convention in Bologna I said that so clearly. Half the sports stadium applauded, half shouted at me: ‘Idiot, idiot!’ It ended in chairs being thrown, an awful business. I was convinced, when I spoke up: at this point the movement is finished, from here on all we’ll hear is the swan song, for all that’s coming is barbarous and foul. And it was so, for five months afterwards was that dreadful business of the Moro kidnap. I was a champion of a journal called the Re Nudo, proponent of an utterly libertarian culture. I feel that I myself am a homeless liberal Marxist. The slogan ‘Change our life before it changes us’ had a very particular significance. We made it our password, and for a moment the movement understood so in that sense it worked, before the hurry to take over the Winter Palace swept all before it, because it didn’t take into account the nature of humanity. New generations can grow up provided quality publishing exists, from articles to novels. If you publish De Carlo this is a very specific choice. If you publish Susanna Tamaro, that too is a very specific choice, a monstrous and unheard of lowering of the political and cultural standard.’

The publishing house of Tranchida started off with a certain kind of experience: ‘We did have some knowledge of the rules of the game, for good or evil I’d been fifteen years in publishing in which time I’d had a taste of everything.’ Even if there’d been some hard times, he confesses, more than once, managing to pay four salaries along with all the other expenses of a publishing house is no mean undertaking. The crisis of 1994 was a difficult time. There was the instability of the government, the endless votesbring anguish and insecurity to the country, weariness in the people who prefer to watch television because of its immediate impact and doesn’t force you to think with your own head.

“The book forces you to think; besides, it doesn’t come to your house, you have to go to a bookshop, look for it, buy it and then read it. All operations that command a choice and time. Television is faster.”
Giovanni Tranchida talks about all this with a deepest regret as he would say: they don’t know what they are missing. And what if, with the pleasure of reading, you add on the pleasure of the search, of the journey, of the discovery? Is there anything better? Giovanni’s dream is called Euzkadi. For year he was involved in it, he studied it, he lived in those places, has published a book on his history, a few days before he was arrested. In 1980 it sold more than twelve thousand copies. It’s been translated into Spanish and Basque and adopted in schools as a school text.

“Our publishing house started its activity before the “advent” of Craxism. At that time Craxi bewitched the left movements, he made us dream when he told the Americans in Sigonella to fuck off. Eventually, we have a tough politician, we would say to each other. But it wasn’t like that. The first year of our activity have been extraordinary, perhaps because when something new is born, there is always a lot of interest; then, it comes a phase of adjustment. And it’s been really hard because now we were right in the middle of craxism. The only value which was accepted was “rampantismo”. Culture was not entertaining, it was not mundane and our publishing house didn’t fit nicely between dwarfs and chorus girls.” At that time Milan was a city to drink.


from “La rivoluzione in un altro modo” taken from Cinzia Sasso’s “Editori tra resistenza e resa”, Sonda, Torino 1996.
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