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Il libro
Premio Iberico-Americano de Novela presieduto da Antonio Skármeta
Lo sguardo di José Durango si sposta incessantemente tra l’orizzonte della cordigliera e quello della pampa colombiane, che delimitano lo spazio fisico e metafisico in cui si svolge la vicenda singolare di un uomo e dove si compie la drammatica storia di una terra e di un popolo. “Cielo sopra e fango sotto” ripete il vecchio saggio Floro Pulido come un refrain nel corso della narrazione: questo è l’affresco che Santamaria ci rende della sua regione d’origine, Tolima, con un cielo dove le stelle si sono spente e dove la terra è stata devastata dalla valanga di Armero, nota tragedia dell’umanità che in una sola notte soffocò nel fango le vite di ventimila persone. Quel 13 novembre Durango non era lì a prendersi la sua morte, a condividere l’ultimo minuto di vita dei suoi familiari, e ora è condannato a compiere il suo destino lontano, come gli dice la sua unica figlia sopravvissuta, Diana Valesca, che sta per partorire il nipote di Durango e di Vicente Avila, anche lui scampato alla valanga, che da dieci anni ha giurato di uccidere il meccanico di trattori. Con la sua “tula” buttata sulla spalla e senza tre denti sopra, Durango vaga per un paesaggio lugubre e melmoso, dove i pochi sopravvissuti non sono più distinguibili dai fantasmi, dove l’acre odore di zolfo pervade le macerie e la desolazione, e rimane ad aleggiare come il monito di una natura distruttiva e ineluttabile. In questo scenario si stagliano personaggi tratteggiati da una mano che caratterizza abilmente un realismo magico tutto personale: tra questi compaiono il meccanico Antonio Banderas che per eliminare il dolore che negli anni affligge il suo corpo si toglie gradualmente organi e arti, e che dopo la valanga viene ritrovato ironicamente senza testa; il vecchio Floro Pulido che si aggira con la sua croce per l’apocalittico paesaggio dove i galli hanno smesso di cantare e i cani non latrano più, e dove l’unico rumore che interrompe il silenzio di morte è lo stillicidio della pioggia sulle tegole di zinco; e il Payaso, “con le braccia di orso e le mani di donna”. Durango ritorna nella sua terra perché vuole che si compia il giuramento di Vicente Avila, giuramento che in ogni piccolo paese donne e bambini non mancano di ricordargli, ma ormai Durango non ha più diritto a questo destino: il 13 novembre non si trovava insieme alla sua famiglia e alla sua gente e per questo ormai il suo esilio è definitivo, da questo momento il suo esilio sarà sia nella vita che nella morte. Vicente Avila non ucciderà Durango, nonostante il tradimento di questi con sua moglie Lucila avvenuto dieci anni addietro. L’amore di Durango per Lucila finì dopo una sola notte di passione, fu un amore breve e struggente, come la morte, perché come dice Floro Pulido “l’amore ha la stessa condizione della morte”. E fu un amore che comunque non salvò Durango dalla sua morte in vita, che non riscattò i suoi sogni morti da tempo e che per questo non gli concede più il diritto di essere ammazzato. A nulla varrà il suo tentativo di lasciarsi travolgere dalla piena del fiume, tutto ciò che conseguirà sarà soltanto un po’ d’acqua e di zolfo nei polmoni. E così Durango dovrà assistere come spettatore muto allo sfilare delle morti altrui, come accade nella processione notturna finale popolata da tutti i morti della sua terra, quelli riconoscibili e quelli non riconoscibili, quelli decapitati, le vittime della Violenza e della Valanga. Saranno questi morti che infine dovrà vigilare una volta presa in spalla la croce lasciatagli da Floro Pulido. La prosa di Santamaria da un lato evoca echi hemingweyiani e conradiani per la sua incisività con cui incornicia paesaggi di scura devastazione e saccheggio esistenziale, e dall’altro ricrea la geniale delicatezza di una poesia borgesiana, come suggerisce la seguente descrizione: “[Floro Pulido] posò la croce e si addentrò tra le erbacce del cimitero, senza rumore e senza orme, senza scompigliare le piante con le spine o con i fiori, con la stessa dolcezza con cui un corpo nudo si nasconde tra le ombre”. Questa è l’eredità letteraria che lo scrittore colombiano stesso riconosce, insieme a quella di altri autori come Lowry e Mutis. L’asciuttezza dello stile di Santamaria e la sua capacità di indagare minuziosamente paesaggi di morte sono da ricercare anche nella sua lunga attività di cronista e nella sua esperienza di reporter in prima linea. La desolazione e la devastazione del paesaggio fisico e umano che Santamaria rappresenta nel suo romanzo si possono leggere talvolta come la metafora delle violenze e dei soprusi secolari perpetrati nei paesi dell’America Latina che hanno provocato vittime rimaste a lungo tempo senza voce. In Non morirai, lo scrittore colombiano non lascia i caduti nel silenzio: è il vecchio Floro Pulido a dire che gli uomini vogliono risolvere tutto con la distruzione e con la morte, come è successo in Colombia con la Violenza, sintomaticamente scritta con la maiuscola come cifra del massacro di ogni tempo e luogo. In questo intenso romanzo dove il nero della catastrofe dischiude dei piccoli sprazzi di luminosità, come quella dei crisantemi bianchi amorevolmente trapiantati da Durango nel suo giardino, Santamaria offre dissertazioni sul morire e sull’uccidere con uno stile lapidario e ironico (“si può lavare nello stesso fiume?” si chiede Durango, ne è solo un felice esempio), grave e disincantato, che gli ha accreditato il successo letterario sia in Colombia che all’estero. |
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Germán Santamaría Non morirai Traduzione di Paolo Guidera e Paola Monteverdi Cover Marco Ceruti 2011, NT 13, 210x140 pagine 127 euro 13,00 Isbn 978-88-8003-344-8
Germán Santamaría (Tolima, 1950), è stato cronista di punta del quotidiano colombiano El Tiempo e inviato speciale, reporter in prima linea a Beirut, nella guerra delle Falkland-Malvine, nella guerra in Nicaragua e nel conflitto armato in El Salvador. Sono rimaste famose le sue cronache sulla tragedia di Armero, sulla presa del Palazzo di Giustizia e sul terremoto di Popayán. Ha ricevuto per ben tre volte con il Premio Bolívar e ha ottenuto a Vancouver il Premio Chamorro. Le sue opere sono tradotte in inglese, francese, russo, tedesco e hindi. |
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