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L’altra che danza
Conversazione con Suzanne Dracius

La parte del libro che narra di Revhana a Fort-de-France, in Martinica, è meravigliosa. Suoni, colori, sapori... sembra di essere là, sembra di sentire i racconti antichi di “man” Cidalise e di assaporare i piatti creoli che Revhana prepara con tanta cura per il suo uomo. C’è qualcosa di autobiografico nella Martinica de L’altra che danza? Ci sono immagini o ricordi della sua infanzia là?

Certamente. La mia traiettoria è, all’incirca, identica a quella delle mie due protagoniste. Come loro, è in Martinica che sono nata, è lì che ho imparato a leggere il mondo, è dei suoi sapori che mi sono nutrita. Come loro, ho in seguito vissuto a Parigi prima di tornare a vivere nella mia isola natale. Le sensazioni della silenziosa riscoperta delle cose dei miei personaggi con la terra natale sono le trascrizioni delle mie, ma anche la loro trasfigurazione. Il prototipo di “man” Cidalise esiste in carne e ossa nella campagna di Vert-Pré dove ho abitato per davvero; i suoi racconti della Martinica di una volta sono autentici, trascritti in un linguaggio autentico, secondo il procedimento stilistico caro a Molière dell’ipotiposi, che consiste a mettere in bocca ai personaggi il parlare corrispondente alla loro regione e condizione. Quanto alla storia di Rehvana, è un fatto di cronaca veritiero, che si è d’altronde riprodotto dopo vent’anni... La realtà ha raggiunto la fantasia... Di un trafiletto nel giornale ho fatto un romanzo, di qualche riga laconica ho fatto quasi 300 pagine, per spiegare perché e come questa cosa incredibile era potuta accadere. In effetti, il testo è un tessuto di reale meticciato al mio immaginario.

Ci sono molte commistioni in L’altra che danza, prima su tutte, l’uso alterno di linguaggi molto diversi tra loro, dai raffinati grecismi, al francese colto e non; soprattutto l’uso del creolo, che anche nella traduzione italiana mantiene una musicalità e un lirismo incredibile. La Sua è una scelta solo teorico-letteraria o anche un modo per dare “nuova voce” a una lingua che, purtroppo continua a essere parlata e studiata solo nei paesi antillani, nonostante molti siano i migranti di quelle terre sparsi per il mondo?

In Martinica si pratica una diglossia francese/creolo, un perpetuo slittamento, come nel parlare di “man” Cidalise. Meticcia di corpo e di spirito, mi capita, nei miei scritti, di usare parole e costrutti tipicamente creoli. Spesso mi viene chiesto se penso che il meticciato linguistico che mescola creolo al francese possa essere considerato come una vena d’arricchimento per la lingua francese. In epilogo a “Scalinata per il cielo” [di prossima publicazione, NdE], l’ultimo testo, intitolato “Scritto col succo di limone verde”, illustra il problema di quello che chiamerei il mio annerimento letterario – e del mio meticciato culturale. Non c’è antinomia, se non antagonismo, tra l’intelligenza lucida, fredda, cartesiana, così frigida da essere artificiale, e l’entusiasmo nervoso di una energia creatrice ossessionata dai “quimbois” e dai vudu delle credenze creole? Fino a che punto l’esaltazione creatrice può pretendere d’aver coscienza dei suoi limiti e dei suoi poteri? A conti fatti, una tale coscienza non è distruttrice in sé? Chi ha l’ultima parola: «Delete»? (Parola scritta, ironicamente, alla fine di quel libro.) 100% meticcia (ancora un maledetto paradosso!), votata all’ossimoro – e al marrone – attraverso la mia persona e nella mia scrittura, assumo l’interezza della mia eredità culturale multiforme. Creola, perché nata e cresciuta in Martinica, trovo normale esprimere con espressioni creole i “realia” del mio ambiente e del mio immaginario creoli. Ma prestissimo i ricordi d’infanzia si sono meticciati ai ricordi d’In Francia, mescolati alle reminiscenze del mio paese natale. Se il francese è la mia lingua materna, il creolo è la mia lingua paterna! Penetro nella lingua francese come in un’abitazione offertami, in cui, della mia isola vulcanica e della mia formazione classica, fanno irruzione la lingua creola, la cultura creola, ma anche le emozioni vive per quelle lingue cosiddette “morte” come il latino e il greco. Non è uno sfoggio, ma una condivisione. Le offro ai miei lettori perché, anch’esse, hanno nutrito la mia cultura e le mie mitologie personali: da kalazaza latino-creolo (“kalazaza” designa un tale guazzabuglio di persona che non si sa a cosa assomigli), io meticcia, tesso tutto ciò in una lingua che sicuramente appartiene solo a me, ma in cui ogni lettore si ritrova, perché tutto ciò che ho scritto gli è reso accessibile, comprensibile grazie al contesto. Tutta questa cultura in meticciato gli è regalata – con diversi giri stilistici di cui mi permetterete di mantenere segrete le ricette. Il francese, che rispetto, specie nella sua sintassi, si trova solo estetizzato ed esaltato. Nulla di blasfemo! Che non si abbia la memoria corta, e ci si sbarazzi di ogni complesso: il francese, come noi lo concepiamo oggi, è risultato dalla congiuntura storico-politica, dal trionfo della langue d’oïl sulla langue d’oc. È solo nel 843 che apparve il primo testo in lingua francese (detta allora “françoise”), vicinissima al latino, con residui di declinazioni latine, come attestano le prime parole del “Serment de Strasbourg”: «Pro deo amor»... Ed è solo nel 1539 che l’editto di Villers-Cotterets, ordinanza di Francesco I – ben nominato! – prescrisse l’impiego del “françois”, il francese, per i testi ufficiali, fin lì redatti in latino. Quanto ai coloni francesi che si istallarono alle Antille a partire dal 1635, non parlavano il francese di corte, ma diversi dialetti e patois delle differenti province di Francia da cui provenivano; allo stesso modo, gli schiavi deportati della Tratta parlavano diverse lingue africane, perché erano originari di diverse regioni d’Africa – spesso i padroni avevano cura di mescolare le diverse etnie, per impedire che si unissero e, partendo, di ribellarsi. (Tutti sanno che l’unione fa la forza.) Gli uni e gli altri non si capivano tra di loro, se non, poco a poco, per il tramite di questa lingua meticcia che è il creolo, nata nelle abitazioni, sulle piantagioni, nelle “case”, nei “giardini”, come venivano chiamati all’epoca i lavori forzati nelle piantagioni di canna da zucchero – bell’eufemismo! Quei giardini non erano paradisi, bisogna dire, se ricordiamo che “paradisos”, in greco, vuol dire giustamente “giardino”. Una lingua è qualcosa di vivente, che si creolizza nel tempo. La lingua creola come le altre! Questo non vuol dire scomparire. Il francese non è esso stesso un creolo del latino, del latino delle legioni romane parlato da galli sgolati, arricchito poco a poco da un vocabolario di stampo letterario dai sapienti gallo-romani, una lingua dalla grammatica fluttuante, tardivamente codificata da Vaugelas, non così tanto tempo fa, nel XVII secolo – non per fissare, ma per regolare la lingua, spronando il ricorso all’uso, fondato sul “buon gusto” della corte e della città? Nella mia scrittura, il creolo si fonde al francese. Cavalco allegramente francese e creolo, a mio piacimento. Per esempio, quando scrivo: «Ha riposato il suo corpo» o «Ha disteso il suo corpo», è una costruzione creola, da nulla, una struttura del creolo, in cui si usa, al posto del pronome riflessivo, “il mio corpo”, “il tuo corpo”. Non si dice, in creolo, “io mi lavo”, ma “lavo il mio corpo” (forse perché la sola cosa che apparteneva allo schiavo, almeno nella sua mente, era “il suo corpo”). L’effetto stilistico produce in francese più sensualità, se non erotismo, che permette di proiettare lo sguardo del lettore a un’immagine più forte, più visiva, quasi cinematografica, di scrivere in cinemascope, scrivere a colori. Nondimeno, per certe poesie, l’ispirazione mi viene unicamente in creolo. Non vorrei essere una Cassandra, né predire la sua diluizione progressiva. Osservo soltanto una evoluzione, una fusione con altri elementi (l’inglese, l’argot, il verlan, ecc.), specie nei giovani della Diaspora nera, per i quali il creolo, I creoli, costituiscono comunque una passerella fatta di un cimento identitario importante per costruirsi e ricostruirsi, saldarsi aprendosi al mondo. Almeno spero. È una delle più belle vocazioni attuali quella di “parlare kréyol”. Le Antille sono state un crogiolo nel quale numerosi popoli sono venuti ad apportare il loro rispettivo patrimonio storico, linguistico, culturale e genetico per dare vita ai popoli antillani. Nell’epoca della globalizzazione e dei raggruppamenti geografici, ogni componente della popolazione antillana può sperare di mantenere la propria identità o dovrà fondersi in una comunità pan-caraibica che avrebbe in condivisione il creolo? Ricordiamoci che la parola “creolo” – la cui etimologia si riferisce al verbo spagnolo criar che significa crescere – designa ogni persona, cosa, pianta, casa, ecc. nata e cresciuta nelle “Americhe”, nelle “colonie”. All’origine creolo si applica a ogni essere – animale, vegetale o oggetto – creato alle Antille, adatto alle case creole come agli schiavi creoli, come venivano chiamati, nel XVII-XVIII secolo, per opposizione agli africani appena sbarcati. Fenomeno curioso alle Antille, i Neri ne sono stati spossessati nel XIX secolo, con un gioco di prestigio iniquo, perché questo termine fu riservato allora ai soli coloni bianchi – quelli che noi chiamiamo in Martinica i “békés”. Quella del secolo seguente è stata una vera e propria riappropriazione, che non fa riferimento a una razza piuttosto che a un’altra, né a una nazionalità, ma a una cultura comune, un immaginario condiviso, quasi un codice linguistico che crea una complicità, una passerella tra le isole. Gli abitanti di Saint-Lucie, per esempio – benché anglofoni –, comunicano con i martinicani come con gli haitiani, anche se ci sono varianti nei nostri rispettivi creoli: hanno conservato infatti un creolo a base lessicale francese, a causa del fatto che Saint-Lucie e l’ex Santo Domingo sono state colonie francesi. Manteniamo, comunque, nostre proprie identità, cosa che mi sembra eccellente, feconda e ricca di apporti multipli, sempre che sia nel rispetto dell’Altro. (E non è sempre così, ahimè! Perché l’immigrazione clandestina, in provenienza da Haiti principalmente, è furiosamente combattuta dalle autorità e violentemente rigettata dalla popolazione locale, specie in Guadalupa, dove ci sono stati dei veri e propri “pogrom”.)
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Suzanne Dracius
Suzanne Dracius
L’altra che danza
Traduzione di Leonarda Oliveri
Cover Marco Ceruti
2010, NT 5, 210x140
pagine 269
euro 16,00
Isbn 978-88-8003-335-6

Poetessa, drammaturga e narratrice, Suzanne Dracius (Fort-de-France, 1951) ha diviso la sua vita fra la Martinica e Parigi. Laureata in Lettere Classiche alla Sorbona, ha insegnato a Parigi, all’Université des Antilles-Guyane in Martinica fino al 1996 e negli Stati Uniti come “visiting professor”.
Rivelazione letteraria grazie al romanzo L’altra che danza, finalista al Prix du Premier Roman 1989, il suo corpus include due poemi in creolo con traduzione francese; la raccolta di racconti Rue Monte au Ciel (2003, campione di vendite); saggi storici e il “fabulodramma” Lumina Sophie dite Surprise (2005). È curatrice di antologie (Premio Fètkann Mémoire du Sud/mémoire de l’humanité 2005). Per la sue raccolta di poesie, Exquise déréliction métisse (2008) le è stato conferito il Prix Fetkann 2009. Le sue opere sono tradotte in più lingue e studiate nelle università di tutto il mondo.
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